Prosegue la serie di interviste #InClinica, la serie dove i professionisti della riabilitazione cognitiva e della neuroriabilitazione ci raccontano le loro opinioni su MindLenses Professional.
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La dottoressa Lucia Ferroni è un medico fisiatra in servizio presso l’Azienda USL Toscana Nord-Ovest, dove si occupa di riabilitazione neuropsicologica.
In aggiunta alla sua attività clinica, che divide tra Lucca, la Valle del Serchio e la Versilia, la dottoressa Ferroni è referente scientifico dell’Associazione Afasici Toscana, e conduce numerose attività di docenza e sensibilizzazione sul territorio sul tema delle afasie e di altri disturbi neurocognitivi, con una particolare attenzione alla condivisione di buone pratiche tra il personale sanitario.
L’équipe della dottoressa Ferroni ha adottato MindLenses Professional, la nostra terapia digitale per la riabilitazione cognitiva, nel trattamento di alcuni pazienti post-ictus e post trauma cranico.
L’introduzione della nuova terapia è stata possibile anche grazie al dottor Federico Posteraro, direttore del Dipartimento di Riabilitazione Area nord dell’Azienda USL Toscana nord ovest, e al dottor Ivano Maci, direttore della Struttura di Recupero e Rieducazione Funzionale di Lucca e Barga.
La dottoressa Ferroni ci ha gentilmente dedicato del tempo una bella mattina d’estate, prima di iniziare la sua giornata lavorativa, per raccontarci la sua esperienza con MindLenses e i primi risultati clinici. Vi lasciamo alle sue risposte!
Dottoressa Ferroni, come è venuta a conoscenza di MindLenses Professional?
Quasi per caso. Su segnalazione di un socio dell’Associazione Afasici Toscana [della quale la dottoressa è Referente Scientifico, ndr], avevo saputo che a Firenze si sarebbe tenuto un incontro sul tema della riabilitazione neuropsicologica [il NeuroTech Day che abbiamo organizzato il 26 novembre 2022 a Firenze, ndr.] Una collega logopedista era venuta a sapere dello stesso evento tramite FLI Toscana (Federazione Logopedisti Toscana), e ci siamo andate con una terza collega, che tra l’altro è anche la presidente dell’Associazione Afasici Toscana. Insomma, un incontro di vari interessi professionali!
Al vostro evento di Firenze abbiamo seguito con interesse la relazione del Prof. Oliveri [neurologo, fondatore di Restorative Neurotechnologies, ndr] sui recenti progressi della ricerca nel campo della neuromodulazione con adattamento prismatico. Poco dopo, abbiamo iniziato l’iter per portare MindLenses Professional nelle nostre strutture.
Che cosa l’ha incuriosita maggiormente del dispositivo?
Come medico riabilitatore, sicuramente il fatto che MindLenses offra la possibilità di influenzare la plasticità neuronale con una modalità per niente invasiva. Attraverso le lenti prismatiche [una delle componenti di MindLenses, ndr] si riesce a indurre una variazione dell’attività cerebrale sovrapponibile a quella indotta da modalità più costose e più invasive, come, per esempio, la TENS [Transcutaneous Electrical Nerve Stimulation, ndr]. Questo aspetto è assolutamente interessante.
Occupandomi di riabilitazione neuropsicologica, ero già al corrente delle applicazioni dell’adattamento prismatico nei deficit visuospaziali: insieme al Prof. Mancuso [Mauro Mancuso, medico neurologo e fisiatra, Direttore della Riabilitazione di Grosseto, ndr] avevamo anche pubblicato un paio di lavori su questa tecnica. Quando ho sentito la relazione del Prof. Oliveri a Firenze, le cose mi sono tornate. In un lavoro che non avevamo pubblicato, avevamo visto che l’effetto dell’after-effect [una delle fasi dell’adattamento prismatico, ndr] si aveva solo in un primo periodo, a poca distanza dal procedimento, e non si incrementava ulteriormente: insomma, dopo l’adattamento prismatico si raggiungeva velocemente un plateau. Le scoperte che sono state poi fatte sul mantenimento degli effetti anche a una certa distanza dalla procedura, unite al fatto che si sia osservata un’attivazione cerebrale di una certa durata e che quindi i miglioramenti registrati a livello clinico possano essere legati a questa attivazione cerebrale, hanno per così dire chiuso un cerchio.
Ci racconti l’esperienza di introdurre una pratica clinica molto innovativa in un settore piuttosto “ostico” come la riabilitazione cognitiva. Prima di cominciare a utilizzare il dispositivo, aveva qualche perplessità o timore?
[Ride divertita] Ma per me la riabilitazione cognitiva non è ostica! Sono in questo campo da quando ero all’università, e penso che, semplicemente, possa aiutare le persone che ne hanno bisogno.
Non avevo timori particolari, perché appunto il dispositivo è davvero poco invasivo. L’unica perplessità è che potesse non funzionare: d’altra parte questo è un pensiero comune quando si intraprende un percorso nuovo! Inoltre, dal punto di vista teorico, ero convinta ci fossero i presupposti giusti perché fosse possibile avere un effetto.
Anche nel gruppo di logopediste che utilizza MindLenses per l’introduzione di questa nuova pratica clinica non ci sono state difficoltà da segnalare – d’altra parte, si tratta di un gruppo rodato che lavora insieme da tempo, ed entro le normali variazioni di entusiasmo individuale, la novità è stata in generale apprezzata.
Se proprio devo segnalare un aspetto, essendo io davvero poco “tecnologica”, ho avuto qualche difficoltà a fare partire i vari tablet [la terapia con MindLenses si svolge su un tablet, ndr] facendo il login e inserendo codici di accesso; ma mi rendo conto che sono ostacoli superabili, anche grazie all’aiuto dei colleghi più giovani – nel nostro caso in particolare del dottor Vincenzo Spina, un collega fisiatra. Ho inoltre sempre ricevuto supporto a distanza dal vostro team [il Servizio Clienti di Restorative Neurotechnologies, ndr].
Nel gruppo di logopediste che segue il servizio di neuroriabilitazione dell’adulto, l’introduzione di MindLenses è stata generalmente apprezzata.
Con quali pazienti utilizzate MindLenses presso il vostro dipartimento di Riabilitazione?
Utilizziamo MindLenses per il trattamento post-ictus e post-trauma cranico, con persone che accedono al servizio di riabilitazione dell’adulto per deficit neuropsicologici da medio lievi a lievi. Banalmente, i pazienti devono essere in grado di muovere il braccio su una certa traiettoria, di capire che non devono concentrarsi troppo a “fare giusto” ma essere spontanei, eccetera [la dottoressa si riferisce qui a due aspetti del protocollo di “pointing” dell’adattamento prismatico, ndr.]
Diciamo che MindLenses ci è utile per fare un lavoro di “rifinitura”. Il dispositivo, per il momento, non ci sembra adatto all’utilizzo con i casi più gravi e questo un po’ dispiace, perché proprio i pazienti gravi (penso addirittura allo stato vegetatativo) beneficerebbero molto da un intervento di attivazione cerebrale. D’altra parte, ho fiducia nei progressi della ricerca clinica. Spero si troverà il modo per utilizzare questo tipo di azioni perturbative, che stimolano la plasticità cerebrale, in maniera sempre più adatta e personalizzata, in modo da poter affrontare uno spettro sempre più ampio di casistiche cliniche.
In questo primo periodo di utilizzo, qual è l’aspetto che ha apprezzato di più del dispositivo?
La possibilità di indurre attivazione cerebrale con uno strumento semplice, non invasivo e ben tollerato dal paziente. Penso che questo aspetto sia intrigante per la maggior parte dei riabilitatori fin dai tempi in cui uscì la stimolazione magnetica e poi quella elettrica: a noi riabilitatori piace poter indurre una maggiore risposta a livello emisferico.
Qual è stata la risposta dei pazienti all’introduzione della terapia con MindLenses?
I pazienti che riescono a collaborare apprezzano il dispositivo e partecipano volentieri alle sessioni di terapia. In generale, registriamo una buona compliance.
Dal momento che siamo un’azienda che sviluppa prodotti innovativi sempre alla ricerca della “frontiera”, ci piacerebbe sapere da lei se c’è qualcosa che migliorerebbe del dispositivo, o che le piacerebbe fosse aggiunta a livello di funzionalità, o in generale le sue idee su futuri sviluppi della terapia.
NdR Nella risposta che segue, la dottoressa Ferroni ha fornito feedback molto precisi e utili per lo sviluppo e il miglioramento del prodotto: alcuni di essi toccano aspetti tecnici che sono stati comunicati al nostro team prodotto. Riportiamo qui, per semplicità, solo alcune delle sue idee di interesse generale.
Per questa domanda mi sono confrontata con il nostro team di logopediste: sono loro che utilizzano MindLenses nel quotidiano.
Innanzitutto ci siamo chiesti se, oltre che per la riabilitazione neuropsicologica, MindLenses non possa essere utilizzato anche per affiancare la riabilitazione fisica e motoria. Secondo noi, potrebbe essere uno sviluppo interessante dell’utilizzo clinico.
In secondo luogo, saremmo curiosi di valutare se l’aumento di intensità e/o di durata del protocollo di adattamento prismatico possa produrre risultati clinici diversi. Per esempio, se invece di 10 sedute [10 sedute costituiscono il protocollo standard di MindLenses clinicamente verificato, ndr] se ne fanno 20, si raggiunge un plateau oppure il paziente continua a migliorare?
Ci piacerebbe poi poter sfruttare maggiormente la finestra temporale di aumentata plasticità aperta con il protocollo di adattamento prismatico con altri esercizi oltre a solo quelli proposti dal tablet, oppure attraverso un ampliamento del numero di esercizi proposti [la dottoressa si riferisce alla suite di serious games di MindLenses Professional, che lavorano sui diversi domini cognitivi: attenzione, linguaggio, memoria, funzioni esecutive ecc.]
C’è un’ora e mezza di finestra utile in cui il paziente è attivato: almeno un’ora, sfruttiamola! Questo anche tenendo conto di come è organizzato il nostro servizio di riabilitazione dell’adulto, in cui il trattamento dura un’ora. [Le sedute con MindLenses Professional solitamente durano meno di un’ora, anche se vi è molta variazione a seconda del paziente, ndr.]
Aggiungo che, qualunque tipo di esercizi si svolgano dopo il protocollo di adattamento prismatico, ogni riabilitatore vi dirà che l’attivazione dell’attenzione a inizio seduta – in questo caso ottenuta con l’adattamento prismatico – fa sempre bene alla buona riuscita della sessione.
Sappiamo che le lenti prismatiche sono conosciute per il trattamento del neglect, ma l’uso che se ne fa in MindLenses Professional è nuovo per molti. Secondo lei, come si può fare divulgazione ai clinici sui nuovi metodi e sui progressi della ricerca, e affrontare magari i dubbi iniziali?
Beh, chi fa riabilitazione è impossibile non abbia mai sentito parlare di neglect, ma è possibile non abbia sentito parlare di lenti prismatiche. Questo nonostante nelle linee guida delle società scientifiche, per esempio nella Consensus Conference CICERONE, l’uso delle lenti nel neglect venga esplicitamente citato come una procedura che funziona. Se quindi il professionista ha in mente che l’adattamento prismatico “l’abbiamo già usato nel neglect” e funziona, tanti timori sull’allargamento della pratica clinica ad altri domini cognitivi oltre a quello visuo-spaziale secondo me iniziano a venire meno.
MindLenses, inoltre, apporta alcuni miglioramenti della pratica clinica dell’adattamento prismatico classico, che un clinico sicuramente apprezza. Per esempio, nell’uso classico, le lenti prismatiche si tenevano sempre indosso, per tutta la durata della sessione di riabilitazione, cosa che poteva provocare una leggera nausea. Invece, nel protocollo di MindLenses il tempo in cui il paziente tiene le lenti è molto ridotto, il che è molto meglio. Sono tutti aspetti che, conosciuti poco a poco, possono supportare l’adozione.
Se il professionista ha in mente che l’adattamento prismatico “l’abbiamo già usato nel neglect” e funziona, tanti timori sull’allargamento della pratica clinica ad altri domini cognitivi oltre a quello visuo-spaziale iniziano a venire meno.
Insomma, secondo me vale la pena evidenziare il fatto che la tecnologia dietro un dispositivo come MindLenses non è “caduta dal cielo”, ma il risultato di precisi progressi scientifici che sono andati a scoprire nuovi aspetti di una tecnica sicura e diffusa.
Proprio per quanto riguarda le evidenze cliniche [MindLenses è una terapia evidence-based; il dispositivo è sottoposto a trial clinici e argomento di pubblicazioni scientifiche ndr], il discorso, secondo me, è articolato nel modo che segue. La riabilitazione è un processo altamente individualizzato: non c’è praticamente mai uniformità di trattamento, quindi è molto difficile, di solito, dimostrare che una terapia “funziona”. Quando, come nel caso di MindLenses, il trattamento è breve e molto specifico, tale variabilità si riduce, ed è più semplice osservare effetti clinici benefici. Questo però non deve portare a una riduzione dell’assunto base della riabilitazione, ovvero il trattamento individualizzato, pena il rischio che si passi il messaggio che si possono usare solo le cose che “sono state provate”, cioè le cose per le quali dalla letteratura sono ricavabili prove di evidenza scientifica. La ricerca dell’evidenza clinica a tutti i costi, che dà un risultato uniforme, a mio parere è addirittura pericolosa, proprio perché se il trattamento è individuale risulta difficile poi pubblicare studi con dati omogenei, se non per alcuni aspetti limitati e specifici; e se non vengono pubblicati studi, non si potranno ricavare evidenze. Ma con il tempo, forse, riusciremo anche in riabilitazione a basarci su un sistema di evidenze, senza sacrificare la globalità e la complessità. In ogni caso, il trattamento riabilitativo deve rimanere individualizzato e, sulla base delle osservazioni sul campo dei clinici, occorre continuare a spingere i limiti della ricerca sulle terapie.
Ringraziamo nuovamente la dottoressa Ferroni per la sua disponibilità.
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